Pubblicato in: Portfolio

Sciò!

Oggi ho pranzato al parco. Come tutti i giorni, del resto.

Quello che io chiamo parco è in realtà un giardino, anche abbastanza piccolo, però è vicino all’ufficio e questo basta. È un giardino particolare perché lavora solo con gli impiegati. Niente famiglie, niente bambini che giocano, niente cani che corrono. Solo gente in tailleur o giacca e cravatta. E solo dalle 13 alle 14, perché poi si torna in ufficio.

Questa sua caratteristica, al di là di quanto si possa pensare, non lo rende troppo triste. Quella è un’ora delicata, in cui non si vorrebbe vedere nessuno, sentire nessuno, parlare con nessuno, soltanto morire, da qualche parte, in silenzio. E dunque, va bene cosi.

Devo dire, comunque, che la categoria degli impiegati eleganti, al parco, mi sorprende. Mantengono compostezza e toni bassi, però sono attrezzatissimi. Arrivano, danno un rapido sguardo per scegliere il pezzo di prato giusto, tirano fuori telo e pranzo al sacco e qualcuno si concede addirittura di togliersi le scarpe prima di sdraiarsi al sole.

Stanno un’oretta così, mangiando e continuando a chiacchierare di lavoro. Infine, alle 14, si alzano, si danno una sistemata e escono dal cancello come stessero uscendo dal miglior ristorante stellato.

Poi, però, c’è un’altra categoria frequentante il parco: quella dei disorganizzati. La mia.

Noi disorganizzati – che avremmo anche un physique du rôle migliore e saremmo, di certo, più consoni a stravaccamenti sui prati – in realtà, arriviamo al parco, di solito, già in difetto. Sappiamo di avere pranzi unti e scomodi da consumare, tutt’altro che eleganti pasti da déjeuner sur l’herbe. Ammettiamo che non potremmo mai sdraiarci con quel savoir faire e con lo stesso savoir faire rialzarci. E sopratutto, solitamente, non abbiamo il telo su cui appoggiarci.

Ora – per quanto discutibile – penso che arrivare alle riunioni del pomeriggio con i pantaloni sporchi d’erba potrebbe essere ritenuto sconveniente. E credo questo sia il pensiero anche degli altri disorganizzati. Così, per quelli della nostra razza, varcato il cancello del giardino, parte la fatidica “caccia alla panchina”.

Le panchine del parco sono poche e solitamente piene. Possono ospitare fino a tre individui che non si conoscono, non si parlano, ma siedono accanto, in riga, e cercano il modo migliore per tenere la ciotola del cibo sulle gambe, appoggiare il coperchio da qualche parte e nel frattempo gestire il pacchetto di cracker aperto, la bottiglietta senza tappo, il tutto evitando di dare gomitate ai vicini.

La caccia alla panchina è una dura lotta. Può anche essere che non tutte le panchine siano al completo, ci sono addirittura momenti in cui, se si è appena alzato qualcuno, tu possa scorgere, tra i cespugli, panchine semilibere, se non, in dei rarissimi casi, perfino vuote. Giusto il tempo di accorgersene però e scoprirai almeno altri tre avventori, provenienti da altre direzioni, e diretti, velocemente, alla tua stessa meta. A questo punto non rimane che una cosa da fare, nonostante la borsa che scende, nonostante la giacca in mano, nonostante le scarpette e il terreno sconnesso: corri Forrest, corri!

Quello in cui raggiungi la panchina per primo, è un momento bellissimo.

Soprattutto se, lanciando borsa da un lato e giacca dall’altro, riesci ad allargarti tanto da far intendere che non ci sia posto per altri, lì, e da far desistere chiunque al pensiero di doverti chiedere di raccogliere tutto, per sedersi. Così rimani sola, intoccabile, totale padrona di quello spazio e meno rancorosa nei confronti di chi, già da un po’, si sta godendo, in tranquillità, il suo pasto sull’erba.

La presa della panchina, quando avviene in solitudine, consente poi un’ulteriore benefit. Una volta finito il pranzo – anche se non è morbida quanto l’erba – anche se probabilmente è più sporca – anche se costantemente circondata da piccioni – avere una panchina in privato consente di sdraiarcisi sopra, borsa sotto le spalle, e, perché no, schiacciare addirittura un pisolino. Dieci minuti al massimo, figuriamoci – le 14 come deadline valgono anche per me – però dei bei 10 minuti, ve lo assicuro.

Beh, oggi, dicevo, ho pranzato al parco. E mi sembrava anche una giornata fortunata.

Panchina libera beccata al primo colpo, poca gente in giro e una bella dormita già pregustata. Tutto perfetto insomma, se non fosse che, alle 13.50, nel momento in cui stavo rimettendo la ciotola vuota in borsa cercando di dare a quest’ultima una forma adatta a farmi da cuscino, si avvicina una ragazza “carina e sorridente”- tral’altro brandendo un invitantissimo trancio di pizza – e mi chiede di potersi sedere.

“No che non ti siedi. Non si fa. Sapevi che me lo stavo pregustando da 40 minuti. Eh? Lo sapevi?  E ora io dove mi sdraio? Possibile che tu non ti sia portata un telo per metterti insieme a tutti gli altri “carini e sorridenti” sul prato? Via! Sciò! Lasciami sola con i miei piccioni. Tornatene fra quelli della tua categoria. E anzi, molla qui la pizza!

Così. Avrei voluto risponderle.

E invece poi mi è uscito un “ma certo, siediti pure.” che ha mandato in frantumi ogni mio sogno utopistico sull’impiego dei successivi dieci minuti. E che non mi ha fatto neanche ottenere un morso di quella pizza.

 

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Autore:

Stagista a tempo pieno. Giura che non se lo meritava.

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