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Decimo giorno di prigionia.

La giornata è iniziata con tutta l’Azienda Ridens connessa in chat per un video-corso di 4 ore a tema sicurezza sul lavoro, obbligatorio per tutti i dipendenti.

È stato anche carino, all’inizio. Dico, ritrovare tutte quelle facce insieme, di buon’ora. Intravedere alle spalle di ciascuno un pezzo di casa, uno scorcio di vita.

Abbiamo cominciato facendo battute, salutandoci come chi si ritrova dopo tempo. Chiedendoci come stessimo e aspettando veramente di sentire la risposta.

Poi si è connesso lui. Il Preposto Responsabile dei Responsabili Addetti Sicurezza. Colui che avrebbe dovuto formarci, per l’appunto.

Ora – forse alcuni di voi non sono così esperti del settore – ma io di corsi sulla sicurezza me ne intendo davvero. In fondo, sono una stagista cronica. E non c’è niente che riesca meglio agli stagisti che seguire millemila corsi di questo tipo. Quello di stamattina sarà stato, credo, il triliardesimo corso sulla sicurezza frequentato durante gli ultimi anni, tra stage e apprendistato, per capirci.

Così ho iniziato serena e distrattamente a seguire le parole di quel distinto signore dall’aspetto tipico di quelli nati per fare corsi sulla sicurezza nella vita.

E seguitavo a guardare la lezione aspettando che sciorinasse una serie di decreti e norme che effettivamente il tizio ha presto sciorinato fiero, proprio da copione.

E attendevo con ansia poi il momento in cui avrebbe proposto un paio di quei video sgranati, anni 90, con la voce da spot e qualche brutto attore protagonista di una serie di gag con fintissimi infortuni sul lavoro. E i video sono effettivamente subito arrivati.

E poi aspettavo trepidante l’istante solitamente più avvincente dell’intero corso, quello in cui avrebbe preso a raccontarci di casi vissuti in prima persona e di gente ebete che aveva rischiato la vita per aver sistemato in maniera errata la fotocopiatrice accanto al quadro elettrico o che si era compromessa per il resto dei propri giorni per una non corretta postura al videoterminale. Ed effettivamente gli aneddoti sono arrivati copiosi, così come le volte in cui ha ripetuto la parola “videoterminale” che non si sa perché ma piace un sacco ai signori nati per fare corsi sulla sicurezza nella vita.

Tutto perfettamente in linea, insomma, con le altre millemigliaia di volte in cui mi ero trovata a frequentare corsi teorici per prepararmi ad affrontare degnamente pericoli in cui mai, a tutti gli effetti, mi sarei potuta imbattere nel corso di un’intera esistenza (anche se aspetto ancora fiduciosa il momento in cui potrò salvare l’umanità dal fuoco imbracciando un estintore a CO2).

Poi – quando ormai ci avviavamo alla conclusione e al temutissimo quanto scontato test finale a risposta multipla – il tizio nato per parlare di sicurezza teorica, blanda, da manuale, ha invece iniziato a parlare di Coronavirus. E di quali misure di prevenzione dovremmo utilizzare in questi giorni. E di come stia progredendo la pandemia. E di quali numeri non tornino, tra contagiati, e morti. E di come probabilmente ci vorrà ancora un po’ prima di tornare alla normalità. Un po’ tanto. E di come, tutto sommato, non c’è prevenzione che tenga: siamo tutti un po’ nella cacca. E di come gli ospedali siano in crisi, e stiano decidendo chi tenere, e curare, e chi rimandare indietro. Di quanto manchino del tutto i dispositivi di sicurezza necessari a evitare ulteriori contagi, a partire dalla totale penuria di mascherine, e di come forse, in effetti, le scuole non riapriranno prima dell’estate, e neanche gli uffici.

Una mezz’ora buona in cui ciò che raccontava, improvvisamente, non era più un’ipotesi così teorica e distante di un rischio inesistente ma l’analisi lucida e razionale della nostra quotidianità. Un corso alla sicurezza come mai seguito prima.

“A maggior ragione” – ha infine concluso inesorabile – “in questi giorni di telelavoro dovete prestare attenzione alla disposizione della vostra scrivania di casa, a una giusta luce che non vi affatichi lo sguardo, e alla postura che tenete quando siete davanti al videoterminale.

Probabilmente perché ormai ci trovavamo tutti ricurvi, occhi sgranati, davanti a quegli schermi.

 

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